Allocchi

Ancora sulla “cultura di destra”, sugli “intellettuali di destra”.

Secondo Antonio è soltanto questione di tempo: stanno conquistando spazi nei social, in tv, in radio, nelle case editrici, si stanno infiltrando negli atenei, piano piano arriveranno anche a prendersi la “cultura alta”, ad avere, anche loro, salotti importanti, salotti rinomati, salotti temuti.

Io non so se essere così fatalista. Riconosco che c’è un trend in atto, ma ci andrei cauto con le previsioni. Di solito le sbaglio sempre. Sono una specie di rabdomante degli errori di metodo.

Malgrado ciò, però, confesso che, sotto sotto credo anch’io che prima o poi lo sdoganamento sarà completo.
E, a volerla dire tutta, penso anche che sarà divertente, parecchio divertente.

È tutta gente che aspetta da decenni di poter occupare quegli scranni che gli sono stati (giustamente) preclusi, dai quali sono sempre stati cacciati via a pedate sulle gengive. Sono allupati. Questa, senza dubbio, è la loro occasione di riscatto. Presto avranno anche loro il potere di “far fallire le feste”.
E sarà tremendo, lo so. Si tornerà a parlare di patria, sangue, suolo, anima, tradizione, valori come se fossero cose reali, di vitale importanza, non fesserie per minchioni.

Allo stesso tempo, però, non vedo l’ora di osservare le loro facce quando scopriranno che in realtà quegli scranni, per i quali hanno lottato così tanto, sono inesorabilmente vuoti. E che probabilmente non sono nemmeno scranni, ma sagome di cartone, messe lì per illudere gli allocchi.

Sarà stupendo cogliere la loro espressione nell’attimo esatto in cui scopriranno chi erano gli allocchi.

Il posto nella catena

Di tanto in tanto, andando in auto, ci capita di incrociare l’insegna di un centro commerciale.

Allora Nicolò si gira verso la sorella e le spiega cos’è un centro commerciale, visto che lei, a causa del covid, non ne ha letteralmente mai visto uno.

L’idea che Nicolò ha di un centro commerciale è questa qui: è un posto dove, poco prima di entrare al supermercato, ci sono delle macchine a gettoni sulle quali si può salire da soli o in coppia, meglio se in coppia.

Le prime volte che lo abbiamo sentito raccontare cos’era la vita senza covid, a me e Vale è salito il magone, poi, pian piano, col tempo, ci siamo abituati. La cosa ha smesso di essere dolce e triste, è rimasta soltanto dolce.

Pensavo a questo perché ieri, Nicolò ci ha chiesto se c’era il virus anche quando lui era piccolo, segno che sta dimenticando il periodo precedente alla pandemia. Ha quattro anni, quasi cinque, era inevitabile che accadesse.

Così, abbiamo preso il suo posto nella catena delle spiegazioni, ci siamo messi a raccontargli cos’era la vita senza covid, come faceva lui con la sorellina.

Visti da fuori, a un occhio esterno, dovevamo sembrare anche noi dolci e tristi. Spero che col tempo, anche noi, smetteremo di sembrare tristi e rimarremo soltanto dolci.

Albero

Quest’anno, Vale avrebbe preferito anticipare l’allestimento dell’albero di Natale alla settimana scorsa.
Le ho fatto notare che noi abbiamo sempre fatto l’albero l’8 dicembre e che «va bene la pandemia, ma l’albero a novembre proprio non si può sentire, somiglia a quelle vetrine tristi tristi, vestite a festa già a ottobre mentre fuori è ancora estate».
L’immagine delle vetrine l’ha colpita. Ne abbiamo discusso ancora un po’ e poi abbiamo lasciato perdere.

Pensavo di averla convinta. Povero ingenuo. Ho solo firmato la mia condanna.

La sua rappresaglia è stata tanto sottile quanto crudele.

Ha comprato un albero di natale minuscolo, lo ha messo vicino a un termosifone. Un albero di natale minuscolo e spoglio. Ogni giorno appende un microscopico addobbo. Un unico microscopico addobbo. E poi lo lascia lì, a fissarmi, con quei suoi rametti esili esiti, con quella sua postura da nanetto da giardino tisico, fino all’addobbo successivo.

Oramai è solo questione di ore: cederò. Nessuno può resistere allo sguardo perpetuo di un alberello bonsai rancoroso e, per di più, disadorno.
E cederò di brutto. La pregherò, la scongiurerò di fare un albero di natale gigantesco, un albero di natale mastodontico, il più grande che abbiamo mai fatto, e non importa se siamo solo ai primi di dicembre, abbiamo sbagliato a non farlo a novembre, tutto purché mi sottragga allo sguardo inquisitorio di quell’alberello psicopatico rintanato vicino al termosifone.

Ma sarà tutto inutile, lo so, lo sento. Lei mi spiegherà che no, avevo ragione io, in fondo è giusto costruire delle piccole tradizioni in famiglia, mi basta chiudere gli occhi per immaginare le sue parole: «Abbiamo deciso l’8? Ebbene lo faremo l’8, che problema c’è?».

Come ho potuto essere tanto stolto?

Sei piccoli studenti

C’è un appartamento abitato soltanto da studenti fuoricorso, sei studenti universitari, per la precisione: tre matricole, tre fuoricorso.

Da circa un mese, sono alle prese con un mistero tanto oscuro, quanto insolubile. Ogni mattina dei peli pubici – ricci e coriacei – fanno bella mostra di sé sullo sfondo bianco della porcellana, di là, in bagno. Di tanto in tanto, compare anche un tarzanello.
È evidente: qualcuno dei coinquilini, nottetempo, fa il bidè nel lavandino.

Ma chi, dannazione, chi?
Chi può compiere un’azione tanto abominevole?

Tutti dubitano di tutti.
Le recriminazioni sono all’ordine del giorno.

Che sia colpa di Giorgio, con quei suoi modini a posto, con quella sua implacabile mania del controllo?
O che sia piuttosto roba di Aldo, il fricchettone del gruppo, con quelle sue idee libertarie?
E se invece fosse Federico, così timido, così chiuso in se stesso?
E che dire di Vincenzo, il mezzo fascio bietolone e represso? È stupido d’accordo, immensamente stupido, ma questo non lo scagiona, anzi.
E Matteo, lo studente nichilista? Perché non sospettare anche di lui? Cosa gli impedirebbe di compiere un simile scempio? Solo d Andrea si può essere certi: lui pare dormire tutto il tempo di un sonno piombigno, ma è veramente così?

Le indagini arrivano presto a un punto morto.

E tanto per complicare una situazione già complicata di suo, la scorsa settimana, al risveglio, i sei coinquilini hanno anche scoperto che un secondo crimine si è unito al primo: qualcuno ha cominciato pure a pulirsi il culo sugli asciugamani di tutti, qualcuno che ha deciso metodicamente di fare esplodere la loro convivenza.

Com’era facile da prevedere, lo sbalordimento iniziale, lascia subito il posto alla furia cieca. Finché…

Non so perché, ma quando stamattina ho provato a scrivere qualcosa, è uscita questa storia qui.
Penso si tratti di una strategia di autoconservazione: qualunque cosa è meglio che pensare al covid.
Qualcuno guarda per intero La regina degli scacchi; qualcuno si appassiona all’interregno post elettorare degli Stati Uniti; qualcuno divora cassoni interi di nutella biscuits; qualcuno studia in maniera ossessiva le curve, le correlazioni, gli andamenti, scaricando i dati della protezione civile; qualcuno inizia a ritenere reali entità prive di qualunque realtà soggettiva come L’Unione Europea o il governo Conte; io mi appassiono alle vicende di un appartamento universitario attraversato da perverse fratture antropologiche.

È stupido, però funziona.

Ma è tempo di tornare al plot: finché i sei capiscono di aver sbagliato a considerare i due crimini assieme, come se fossero perpretati da un unico autore.
In realtà, in casa ci sono ben due colpevoli: uno lascia peli di cazzo in giro, l’altro striscia gli asciugamani. Ed è probabile che le due cose siano collegate. Ci sono segnali abbastanza certi che rimandino a un passato lontano, un passato che unisce il destino di due (o forse tre?) dei sei coinquilini.

Come scoprirlo? Cosa sappiamo della loro infanzia? Quali storie si annidano dietro quegli sguardi apparentemente indignati?

Russell

Sulla bacheca di un mio contatto mi imbatto in una frase di Bertrand Russell: “La causa fondamentale dei problemi è che nel mondo moderno gli stupidi sono sicuri di sé mentre gli intelligenti sono pieni di dubbi”.
È messa in evidenza da un simpatico sfondo con degli stronzi stilizzati.
La leggo e rileggo con attenzione, sperando in un “forse” o un “secondo me” a far da preambolo, ma niente: nessuna traccia di dubbi o altro.
“Apperò” – penso – “Bertrand Russell doveva essere proprio un bel tipetto, una persona profondamente sicura di sé”
Per un istante sono tentato dal scriverlo come commento al post. Poi però guardo la foto del profilo – un’altra persona incredibilmente sicura di sé – e preferisco lasciar perdere.
Sto quasi finendo la mia terza settimana di dieta. Ho altro a cui pensare.

Va

Ho afferrato un barattolo di nutella, l’ho sollevato in aria, ho riempito di parole il cielo.
«Va» – gli ho detto – «prendi il tuo nutella biscuits primogenito, portalo sul tavolo da cucina e sacrificalo in nome mio».

Il barattolo mi ha fissato stupito, ma poi ha chinato il capo, sconfitto.
«Soffrirò, ma se è questo che desideri, lo farò. Ti offrirò il sangue del mio sangue, senza pronunciare alcun diniego, supplice e sodale. Sia fatta la tua volontà».

E ha preso per mano il suo primogenito.
E lo ha condotto mestamente al tavolo della cucina, senza lasciarsi mai sfuggire un sospiro o un lamento, con la morte nel cuore.
Giunto al centro del tavolo, si è fermato, ha chiesto al figlio di inginocchiarsi.
E Il figlio, reverente, ha ubbidito.

«Padre, non capisco».
«Non c’è nulla da capire, figliolo».

Mi sono avvicinato in silenzio, spalancando le fauci.

Sul più bello, Vale ha fatto irruzione in cucina. Le è bastato uno sguardo per capire cosa stava accadendo. Mi ha spostato di lato. «Sta qui, non ti muovere»
«Ma io veramente…»
«Non. Muovere. Un. Muscolo.»

Si è chinata sul vasetto. Lo ha accarezzato delicatamente. Lui ha sollevato lo sguardo.
«Hai dimostrato di essere un barattolo buono e giusto. Prendi tuo figlio, tornate a casa. È tutto finito».
Un bagliore ha circonfuso il suo capo.

Non ho provato nemmeno a replicare, sarebbe stato inutile.
Mi sono limitato a seguirli con lo sguardo per tutto il tragitto fino al loro ripiano in cucina. Due ombre che camminavano lente sul pavimento. Il padre con il volto rigato di lacrime. A pochi passi da lui, il figlio incredulo. «Possibile che mio padre abbia acconsentito?».

Mi sono alzato, sono andato in soggiorno, mi sono abbattuto sul divano.
Era la mia unica cartuccia della giornata. Ho sentito dei preziosissimi grammi evaporare, inghiottiti dal metabolismo. Ho pensato a tutti quei trigliceridi che non avrei posseduto mai più, ai grassi insaturi perduti nel vento. Mi è salito un groppo in gola.
Ho consultato il mio file excel contenente la dieta. Anche oggi, alla voce colazione recita: “gallette e cianuro”. Il groppo si è trasformato in pianto.
Ho versato fiumi di lacrime.

Un’ombra si è allungata su di me. Era Vale. Mi ha abbracciato. Ha stretto il mio capo contro il suo seno.
«Coraggio, Daniele, coraggio. Lo so che è dura. Bisogna essere forti».
Aveva ancora il capo circonfuso di luce.
Mangiava nutella biscuits.
Prelibati nutella biscuits.

Nuvola

Ieri, mare basso.
Si è persino formato un istmo naturale a circa quindici metri dalla riva. Potevi camminarci sopra dando l’impressione di essere Cristo.
Io e Nicolò decidiamo di fare un castello. Prendiamo tutto l’occorrente, ci spiaggiamo sulla riva, iniziamo a lavorare.
Ci impegniamo tantissimo, ma viene su bruttino lo stesso. Un’accozzaglia di sabbia con delle torrette storte al centro.
Circa a metà mattina, spunta la classica famiglia perfetta, padre, madre, due figlie entrambe bellissime, lunghe code di cavallo bionde che riverberano al sole.
Passando, la più piccola mormora al padre: «Che brutto questo castello!», porta la mano alla bocca e sghignazza. Il padre la zittisce subito, ma sorride anche lui sotto i baffi senza darsi pena di nasconderlo. Indossa una bandana a stelle e strisce.
Montano l’ombrellone accanto al nostro.
Noi proseguiamo a costruire il nostro castello che, se possibile, diventa ancora più brutto. Di tanto in tanto, lo guardo sconsolato. È sbilenco, sgraziato, deforme. In compenso, Nicolò ci ha preso gusto. È questo ciò che conta in fondo: che si diverta, per quale altro motivo si costruiscono castelli di sabbia?
D’un tratto, noto un’ombra. È il padre a stelle e strisce. Ha le mani ai fianchi. Guarda soddisfatto il mare. Sussurra qualcosa alle bambine. Loro corrono a prendere palette e secchielli. Noto che non sono palette e secchielli comuni, sembra roba da professionisti.
Assieme alla madre, formano una lunga catena umana. Il padre raccoglie la sabbia, la mette nei secchielli. La madre trasporta i secchielli verso l’istmo. Laggiù, a quindici metri dalla costa, le figlie ci danno dentro con le palette.
Dopo circa mezz’ora di lavorio intenso, comincia già a profilarsi il capolavoro. Il loro castello panoramico è bellissimo, imponente e maestoso allo stesso tempo: sublime.
È evidente che hanno deciso scientemente di surclassarci.
Di tanto in tanto, il padre si volta nella nostra direzione e sorride compiaciuto.
«Bastardo», mormoro, livido di rabbia.
«Cosa dici, papà?»
«Niente, Nicolò, continuiamo costruire il nostro castello».
«Sta venendo bene, vero?»
«Stupendo».
Piano dopo piano, mi accorgo che il loro castello non è soltanto panoramico – in fondo è facile fare un castello panoramico – è anche (e soprattutto) pieno di trovate architettoniche che non si possono definire altrimenti che geniali. Tunnel, contrafforti, archi, cripte sotterranee, balconi.
Quell’uomo è una sorta di Bernini dei castelli di sabbia, il suo castello presto diventerà patrimonio Unesco dell’umanità, e ha deciso di annientarmi.
«Sta qua, Nicolò devo fare una cosa».
Mi alzo in piedi, giungo le mani dietro la schiena, inizio a guardare e contare.
Parto da 30, risalendo la china, fino ad arrivare a 1.
Arrivato a 5, la madre smette di fare la spola tra la riva e il castello, va a prendere il cellulare, urlando: «Selfie di famiglia!».
La spiaggia si volta tutta quanta nella loro direzione.
Era quello che aspettavo.
«Nicolò»
«Sì, papà?»
«Vai a prendere il cellulare della mamma, facciamo anche noi un selfie».
Stringo gli occhi fino a farli diventare fessure, concentro tutte le mie energie su un’unica parola: «Auguri».
Non accade nulla, ma l’aria ha un fremito. È un piccolo refolo, appena percettibile. Eppure lo sento. «Bene», mormoro, «Non ho perso il mio tocco».
La madre nel frattempo ha raggiunto gli altri col suo smartphone.
Allargo le gambe, stringo le chiappe e, aggiungo: «Vivissimi».
«Auguri vivissimi».
L’aria ha un altro fremito.
Stavolta però sento anche un urlo: «Nuvola, no!». Proviene da qualche parte alle mie spalle. Non mi volto neanche. Mi limito a pensare: «Che castello stupendo».
Nuvola è un molosso pachidermico. Si getta in acqua e si scaglia contro la famiglia in posa, mosso da una forza irresistibile: me.
Stringo ancora di più le palpebre: «No, non il castello. Non ora».
Nuvola sfiora il castello senza abbatterlo.
Le nocche dei miei pugni diventano pallide: «Lui. Deve essere lui».
Per evitare la carica di Nuvola, il padre scarta di lato, inciampa sulla figlia minore, cade rovinosamente contro il suo castello. Centodieci chili di muscoli e ossa, le osservo compiaciuto crollare in rallenti, spazzando via ogni cosa.
Quando anche l’ultima torretta è crollata, il tempo torna a scorrere a velocità normale.
Riallargo lo sguardo. Riporto le mani nella loro posizione naturale. Rilasso le spalle. Il mondo finalmente si è riallineato, è tornato a essere un posto tutto sommato abitabile.
Qualcuno in spiaggia applaude.
Prendo il cellulare che Nicolò mi sta porgendo, mi metto in ginocchio, abbraccio Nicolò, dò le spalle alla famiglia felice, scatto.
Presto, a quel primo timido applauso si aggiungono anche altre mani.
Il padre mi guarda stupefatto. Non lo degno nemmeno di un sorriso.
Controllo piuttosto che la foto sia venuta bene.
È, senza dubbio, il selfie migliore della mia vita.

Maledetto Ugo

Ho cominciato per colpa di Ugo Tramontano.

Ha postato una foto qui su fb di un kindle. Dentro quel kindle c’era un libro. Quel libro non era un libro come tutti gli altri, era un libro di Simenon.
Sopra quella foto, capeggiava una scritta: “Non riesco ad uscire dal tunnel Maigret”. Alludeva al fatto che stava leggendo TUTTO Maigret.

Un piccolo incidente, in fondo.
Il mondo è pieno di bizzarrie.

Ho provato invano a scorrere la mia timeline nel tentativo di dimenticarla.
Non ho trovato nulla su cui concentrare l’attenzione. I miei contatti, sempre così prodighi di meme, roba trash, foto imbarazzanti, carambate epiche, sembravano essere andati tutti in sciopero. C’erano soltanto post insipidi, sciatti, roba scritta sotto dettatura dall’afa, roba che scivolava via come l’acqua: incolore e inodore.

Ho scagliato via lo smartphone con rabbia.

Ugo maledetto. Mentre respiravo, mi sono detto: “Calma, Daniele, calma. Controllati. Hai già iniziato la lettura della bibliografia completa di King, saranno quasi un centinaio di volumi, alcuni lunghi quasi mille pagine. Non finirai mai. Come crisi dei quarant’anni è più che sufficiente, non esagerare”.

Lo smartphone era lì, a pochi passi da me, mi guardava.
Ho continuato a espirare e respirare lentamente, fino a raggiungere una sorta di trance.
Per un po’ sono rimasto in pace col mondo, poi, però, dal fondo del mio essere è apparsa un’immagine. Il baretto sotto caso. Io ero seduto al bancone. Bevevo una Seme Dorato. Attorno a me, gli avventori di sempre – Tigna bruciata, Tigna dorata, Faccia senza piacere, Tutti rutti, Mezza birra, Biondo a matula e Calamaro – mi indicavano a uno “straniero”.
«Quello» – dicevano – «Quello è il tizio che si è letto tutto Simenon».
Io alzavo il calice nella loro direzione: «Simenon e ANCHE King. Salute!».

Le dita sono andate via da sole. Ho ripreso lo smartphone, ho iniziato a computare febbrilmente il maledetto catalogo Adelphi, ho acquistato i primi due volumi. Pietr il Lettone, L’impiccato di Saint Pholien.

Qualche secondo dopo ero già chino sul kindle. Sfoggiavo un sorriso ebete.

Dato che ho paura per la mia salute, mi sono dato un piano quinquennale. Andrò prima sui Maigret. Quando li avrò terminati (75 volumi) passerò al resto. Li intermezzerò con i King. Grosso modo 2 Simenon e 1 King ogni 12 giorni, in modo da avere il tempo di leggere anche qualcos’altro. Se tutto va bene, tra qualche anno avrò finito. Se tutto va male, brucerò tra le fiamme dell’inferno.

Può sembrare una resa incondizionata, per certi versi lo è, però stavolta, almeno stavolta, ho imparato la lezione: devo smettere di guardare i profili degli altri lettori forti. Devo proprio cancellarli dalla mia timeline.
Ho due figli. Se non per me, per la mia incolumità, devo farlo per loro. Meritano un padre migliore.

Di quanto sia

Hanno iniziato a parlare di prossemica, di quanto sia una strumento sottovalutato e poco conosciuto, benché dovrebbe far parte del bagaglio minimo di chiunque si relaziona con l’altro e roba così.

Dopo un po’, ho tirafo fuori dalla tasca il mio smartphone.
Ho trovato uno di quegli articoli divulgativi corredato da delle infografiche stilose. Roba per gente intelligente con una spiccata vena artistica.
Ho letto l’incipit: “Ciò di cui ci liberiamo racconta tante cose di noi”. Mi è piaciuto. Ho guardato le illustrazioni.
Feci di dimensioni e forme differenti. Sotto ogni riquadro, una piccola didascalia in grassetto e una descrizione. La didascalia annunciava la patologia collegata con quel tipo di feci, la descrizione chiariva il motivo dell’accoppiata.
“Apperò”, ho pensato, “roba chic”.

Al tavolo c’è stato un attimo di silenzio. Per sicurezza, sono riemerso un attimo. Adesso stavano parlando di cinesica. Sono tornato al mio articolo.

Mi sono detto che chi ha disegnato quella roba deve aver studiato a fondo il problema, deve esserci documentato parecchio. Le immagini erano incredibilmente realistiche, impossibile non notarlo.
A voler cercare il pelo nell’uovo, unica nota stonata: il titolo, così inultimente didascalico: “Cosa ci dice l’intestino”. Un vero peccato.
Io lo avrei intitolato: “Mostrami come cachi e ti dirà chi sei”, ma dubito che il comitato redazionale avrebbe dato il suo benestare.

Mentre attorno a me, discutevano di comunicazione non verbale o qualcosa di simile, ho studiato bene tutte le illustrazioni, alla ricerca di quella che descriveva al meglio il mio caso.
Alla fine, sono riuscito a restringere il campo a soli tre riquadri. Uno rappresentava il mio passato. Uno un mio momento difficile. Uno il presente e in fondo l’auspicio per il futuro.
Ho letto le didascalie. Tutto sommato mi è andata bene: malattie benevole, mortali (certo), ma discrete, niente di particolarmente doloroso. Due o tre anni di sofferenze e via.

Ho posato lo smartphone e rialzato lo sguardo. La discussione sembrava essersi infervorata. Si erano formate due fazioni, forse tre. Ho provato a inserirmi approfittando di un silenzio: «Secondo me, ciò di cui ci liberiamo racconta tante cose di noi». Due di loro mi hanno guardato come se avessi detto una cosa sensata, gli altri tre come se avessi sparato una frase nel mucchio. Vale era tra questi.
«Di questo passo», ho aggiunto, «io proprio non lo so…», dopodiché ho lanciato uno sguardo sperso nel vuoto per dare profondità a quanto detto. Silenzio. Altro sguardo nel vuoto, corredato da un poderoso sospiro. «D’altra parte è così». Sipario.
Com’era prevedibile, uno di loro ha abboccato. Ha esclamato: «Appunto», poi è tornato – credo – a ripetere le stesse cose di prima. La discussione si è come incendiata.

Mi sono alzato e sono andato a fumare una sigaretta fuori, in cortile, fiero di aver dato anch’io un vigoroso contributo alla conversazione.
Avevo già pronto un altro colpo in canna: «L’essenziale è invisibile agli occhi, io perlomeno la penso così», me lo giravo e rigiravo tra le labbra, pregustando già il suo effetto dirompente.

Dopo

Saranno cinque anni, ormai, che ho una zanzara in casa, sempre la stessa.
Ho provato talmente tante volte ad ammazzarla senza riuscire nel mio intento che alla fine siamo diventati amici.

Abbiamo firmato un patto di non belligeranza. Lei ha promesso di gravitare soltanto nella mia parte di letto e pungere unicamente me, io in cambio ho smesso di darle la caccia per farle la pelle.
Lo abbiamo siglato una notte di agosto di due anni fa. Da allora siamo sempre andati d’amore e d’accordo.

Stamattina, al mio risveglio, me la sono ritrovata posata sul naso. Mi stava fissando. Ho controllato che Vale dormisse, poi le ho chiesto: «Embè? Che c’è? Che vuoi?»

Mi ha risposto: «245 euro più la manodopera», poi è volata via, mormorando: «Coglione». Ho avuto l’impressione che ridesse, che sghignazzasse per la precisione.

L’ho inseguita un po’ con lo sguardo, poi mi sono rassegnato ad alzarmi.

Mentre mettevo su il caffè, la zanzara è tornata a farmi visita. Si è posata sulla mia spalla. «Devi fare qualcosa per te», mi ha detto, «Dopo, dopo vedrai che ti sentirai meglio, fidati».
È tornata a ghignare.

Così ho fatto qualcosa per me ed effettivamente dopo, dopo mi sono sentito meglio.
Ho lavato la mano sotto l’acqua corrente per grattar via il sangue e aspettato che il caffè salisse a galla, finalmente solo.

Le mie due verità

Quando domenica, a mare – a circa 50 chilometri da casa e con due bambini al rimorchio – ho toccato incuriosito la tasca del mio costume e le mie dita si sono posate sulla sagoma inconfondibile delle chiavi della mia macchina, ho avuto una violenta illuminazione zen.
Ero immerso fino alla vita in acqua. Per un attimo, sono uscito dalle mie spoglie terrestri, mi sono guardato da fuori e da lì, da quella distanza incolmabile, ho pronunciato quella che considero la verità più autentica sulla mia persona: «Sei un coglione».

Tutto improvvisamente è diventato limpido: Il mio passato, il mio presente, il mio futuro, il ruolo della mia presenza nell’ordine caotico dell’universo.
«Sei un coglione», ho ripetuto, mentre sono tornato a occupare il mio corpo.

Avvolto nel mio Satori, mi sono detto: «Cosa vuoi che sia? Basterà asciugarle». Le ho asciugate.
Il telecomando ha funzionato un’ultima volta. Ha sbloccato le portiere, ha lasciato che l’auto si mettesse in moto per riportarci a casa.
È morto in serata, malgrado tutti i miei tentativi di tenerlo in vita. Lo ha fatto serenamente, consapevole di aver compiuto il proprio dovere fino in fondo.
L’ho salutato come si saluta un eroe.

Ho compiuto persino un’autopsia. Ho preso un cacciavite, ho smontato la sua parte elettronica. Il suo circuito stampato, il vano batteria, la batteria stessa: tutto era oramai irrimediabilmente ossidato. Ho di nuovo dato fiato alla verità: «Sei un coglione».
Le parole sgorgavano direttamente dal punto più profondo del mio essere.

Domani, quella stessa verità si trasformerà in una cifra numerica: 245 euro più la manodopera. I preventivi, a volte, sanno essere davvero crudeli.

So già che nell’istante in cui consegnerò la mia carta di credito al mio esoso creditore, proprio nel frangente in cui lo vedrò scrivere la cifra finale sul POS, probabilmente avrò una seconda e forse più feroce illuminazione zen. Non mi è dato sapere cosa scoprirò, ma di sicuro qualcosa di molto molto potente su di me.

Dopodiché, abbandonerò quel che resta della mia esistenza precedente, ogni desiderio, ogni preoccupazione, ogni dolore, mi siederò sotto un platano e lascerò che la potenza del mio nuovo stato si sparga come olio lucente anche sul resto del mondo.

La gente verrà a visitarmi. Poserà mazzi di chiavi ai miei piedi in segno di devozione. Io li guarderò con riconoscenza mista a consapevolezza. Ripeterò loro le mie due verità.

Rinfrescare

Abbiamo trascorso qualche giorno a mare, in una villetta con un ampio giardino.
Nicolò di tanto in tanto faceva la pipì fuori, all’aperto, anziché in bagno.

Mentre era lì che liberava la vescica, ripeteva sempre la stessa frase: «E ora diamo una bella rinfrescata!». Non so dove l’ha sentita, ma ha sempre funzionato. Lui la pronunciava, io ridevo. Le piante un po’ meno.

Una delle volte che ho riso, mi sono ricordato dell’unica visita di mio nonno nella casa in cui i miei hanno vissuto a partire dai miei 15 anni.

Avevamo traslocato da poco. L’arrivo di nonno era un piccolo evento famigliare, lasciava di rado la sua campagna e sempre malincuore, quattro o cinque volte l’anno, non di più, qualche festa comandata – non tutte – e qualche funerale. Stop.

Ad un certo punto, proprio prima dell’ingresso della frutta, nonno è scomparso. Lo abbiamo cercato dappertutto. Giravamo per le stanze, chiamando: «Nonno?», «Nonno?» ma niente, non c’era, sembrava svanito nel nulla.

Lo ha trovato mio fratello. Era in giardino, stava pisciando.
Aveva in volto la stessa espressione di Nicolò. Stava dando una bella rinfrescata.

21 luglio

1.

Quando abitavo alla borgata, a Siracusa, davanti casa mia c’era una signora molto anziana, se ne stava accartocciata su una sedia abbandonata sul marciapiedi.

2.

Sembrava una statua. La mattina, il figlio la portava fuori sollevandola con tutta la sedia. La sera, allo stesso modo, la riportava dentro. Nel tempo restante, rimaneva completamente immobile a fissare la strada con lo sguardo smorto e il capo un po’ reclinato a destra, in quieta adorazione.

3.

Si muoveva in maniera impercettibile solo ogni tanto per segnalare l’arrivo di una volante della polizia: A destra se le forze dell’ordine arrivavano dal viale luigi Cadorna, a sinistra se risalivano da via Pasubio.

4.

Se non sbaglio non aveva né nome né ingiuria. Era semplicemente la vecchia.
Viveva nel basso alle sue spalle. Una stanzetta arredata in maniera modesta con una televisione perennemente accesa su rete quattro.

5.

L’anno scorso, sono tornato in quartiere dopo ventun anni. La vecchia non c’era più.

6.

Il basso adesso ospitava un b&b, il Kalos. Prezzi imbattibili, sconti incredibili per le Rappresentazioni Classiche.

17 luglio

1.

A volte penso che dovrei liberarmi di tutti i libri che possiedo per fare spazio a quelli che verranno. Dopo tutto è raro che ne rilegga qualcuno, occupano soltanto spazio. Prima o poi cominceranno a invadere il pavimento, lo so, lo sento. E da lì alla segnalazione ai Servizi Sociali, il passo è breve.

2.

Forse dovrei costruire una piccola biblioteca all’aperto in fondo alla via in cui abito e metterne là un paio alla settimana, sarebbe sufficiente per svuotare la mia libreria poco a poco, in modo da non soffrire troppo.

3.

La parte logistica non dovrebbe essere un problema. Basta comprare delle Billy all’ikea e montarle (in caso non si riesca proprio a trovare delle librerie abbandonate vicino a un cassonetto, intendo).
Per la pioggia, basterebbero dei teli di plastica trasparente o una piccola tettoia. Nulla di troppo complicato, due assi di legno verticali piantate nel terreno, una lastra di metallo orizzontale imbullonata sopra.

4.

C’è un unico problema: La gente è crudele.
Sospetto che dopo qualche tempo anche gli altri abitanti del quartiere seguano il mio esempio: anziché prelevare soltanto (come fare qualunque essere dotato di razionalità), potrebbero cominciare a riempire la biblioteca con i loro libri.
Ciò renderebbe vano ogni mio sforzo.

5.

Se c’è qualcosa, infatti, a cui non so proprio resistere sono i libri usati, o meglio: i libri maltratti, quelli pieni di pieghe, di sottolineature, di segnalibri inventati, di segni del passaggio di altri lettori.
Presto, insomma, tornerei a riempire gli scaffali della mia libreria con i libri in fuga dalle librerie dei miei vicini di casa e non credo che Vale approverebbe. A tutto c’è un limite.

6.

Ma sì, meglio lasciar perdere. Sono troppo pigro per decidere scientemente di avere a che fare anche con tutto questo. Meglio rimanere un accumulatore seriale.
Spero soltanto di non ritrovare mai sull’uscio di casa una troupe di Sepolti vivi pronta a riprendere tutto in maniera impietosa. Non sopporterei le interviste a Egle e Nicolò adolescenti.
«Papà? Papà ha sempre riempito la casa di libri. La sua è una malattia»
«A me, in fondo, fa pena. Chissà quanto ha sofferto»
«Io non provo pena, solo pietà»

14 luglio

1.

«Hai visto?», gli ho detto quando finalmente mi sono tornate le parole, «con un po’ di fantasia, anche gli ingredienti più poveri possono trasformarsi in cibo. La creatività umana è sconfinata.»
Mi ha guardato interdetto. «Ma papà…»
Ho balbettato: «Sconfinata» per rimarcare il concetto, sperando che non mi guardasse ancora in quel modo.
Poco dopo, ci siamo lasciati il bar spalle e con esso, l’orrore.

2.

La giornata è trascorsa come sempre, con i suoi alti e i suoi bassi, placida e silente, estiva: calda quando doveva essere calda, meno calda man mano che il sole è scomparso all’orizzonte.

3.

La sera, dopo averlo messo a letto, sono rimasto a guardarlo per un po’.
«Il mio ometto. Stai diventando grande.»
Proprio quando stavo per andarmene, ho sentito la sua voce.
«Papà…»
«Sì, Nicolò»
«Scusa se oggi ho fatto i capricci per mangiare»
«Tranquillo, capita»

4.

Mi sono seduto accanto al letto, in attesa.
«Papà…»
«Sì, Nicolò»
«Perché quei bambini mangiavano ghiaccio tritato?»
Mi si è stretto il cuore. Per un istante sono stato combattuto se mentire o meno. Alla fine ho optato per la verità, credo che consista in questo il mio ruolo di padre.
«Sono messinesi. Loro, la granita, la mangiano così»
«Se faccio i capricci potrebbe capitare anche a me?»
«Oh, no, Nicolò, tu non sei nato nel messinese»

5.

«Deve essere terribile…»
«Lo è».

6.

L’ho abbracciato a lungo. Si è addormentato tra le mie braccia.

4 luglio

1.

Sono in bagno, sto accompagnando la peristalsi fino al suo legittimo epilogo. Nel frattempo leggo un libro strano dell’Anedda, La vita dei dettagli.
Ho appena assorbito un brano molto intenso, quando sono trafitto da una tanto improvvisa quanto violenta illuminazione zen.

2.

È un momento talmente bello – penso – è davvero un peccato rovinarlo con un libro. Così poso l’Anedda – spero mi perdoni – mi aggiusto sulla tavolozza, trovo la posizione più comoda, chiudo gli occhi e mi godo il momento.

3.

La prima luce del mattino vira dal giallo oro al rosso fuoco, poi al magenta, poi al viola intenso, poi torna di nuovo sulle tonalità dorate: giallo ocra, giallo paglierino, giallo oro.

4.

Tiro un sospiro. Torno al libro, il brano di prima mi sembra ancora più intenso, riverbera.
“La colomba dello spirito soffia dove vuole. Tutto è nudo. La geometria scortica lo spazio. La prospettiva lo tiene immobile”.

5.

È vero. Tutto è nudo. La geometria scortica lo spazio. La prospettiva lo tiene immobile.
Quando esco, mi tornano alcuni versi di una poesia di Rilke.

“Ma chi ci ha rigirati così
che qualsia quel che facciamo
è sempre come fossimo nell’atto di partire?”

6.

Mi ricordo di non aver tirato lo sciacquone.
Torno indietro.
Osservo il vortice.

“Come
colui che sull’ultimo colle che gli prospetta per una
volta ancora
tutta la valle, si volta, si ferma, indugia -,
così viviamo per dir sempre addio.”

1 giugno

1.

Il tappo dello spazzolino è rotolato sul lavello.
Ho pensato: Siamo fatti della stessa materia dei sogni.

2.

La curvatura del lavello ha aumentato la sua energia cinetica. Quando il lavello è finito, ha spiccato un salto. Ho pensato: Siamo fatti della stessa materia dei sogni.

3.

L’ho acchiappato al volo, giusto un attimo prima che finisse dentro la tazza del cesso. Ho detto: Ah AH!
Ho pensato: Siamo fatti della stessa materia dei sogni.

4.

Nel farlo, però, mi sono sbilanciato. Ho roteato le braccia sempre più furiosamente, lasciando andare lo smartphone che tenevo in mano. L’ho visto precipitare al ralenti.
Stavolta non ho pensato: Siamo fatti della stessa materia dei sogni. Ho pensato qualcosa di molto più prosaico, roba del tipo: Il secondo smartphone in un mese.
Dopodiché, ho pensato di nuovo: Siamo fatti della stessa materia dei sogni.

5.

Qualche frazione di secondo più tardi, lo smartphone ha colpito con violenza inaudita la ceramica della tazza, aprendo un’imponente voragine a forma di Fujiyama.
Sono rimasto in silenzio a guardare i cocci di ceramica galleggiare sopra ciò che restava del mio cellulare. Ce n’era uno a forma di sole, uno a forma di orso, uno a forma di coleottero.

6.

E finalmente me lo sono ricordato.
Shakespeare. La tempesta. Primo atto.
Siamo fatti della stessa sostanza dei sogni.