Nuvola

Ieri, mare basso.
Si è persino formato un istmo naturale a circa quindici metri dalla riva. Potevi camminarci sopra dando l’impressione di essere Cristo.
Io e Nicolò decidiamo di fare un castello. Prendiamo tutto l’occorrente, ci spiaggiamo sulla riva, iniziamo a lavorare.
Ci impegniamo tantissimo, ma viene su bruttino lo stesso. Un’accozzaglia di sabbia con delle torrette storte al centro.
Circa a metà mattina, spunta la classica famiglia perfetta, padre, madre, due figlie entrambe bellissime, lunghe code di cavallo bionde che riverberano al sole.
Passando, la più piccola mormora al padre: «Che brutto questo castello!», porta la mano alla bocca e sghignazza. Il padre la zittisce subito, ma sorride anche lui sotto i baffi senza darsi pena di nasconderlo. Indossa una bandana a stelle e strisce.
Montano l’ombrellone accanto al nostro.
Noi proseguiamo a costruire il nostro castello che, se possibile, diventa ancora più brutto. Di tanto in tanto, lo guardo sconsolato. È sbilenco, sgraziato, deforme. In compenso, Nicolò ci ha preso gusto. È questo ciò che conta in fondo: che si diverta, per quale altro motivo si costruiscono castelli di sabbia?
D’un tratto, noto un’ombra. È il padre a stelle e strisce. Ha le mani ai fianchi. Guarda soddisfatto il mare. Sussurra qualcosa alle bambine. Loro corrono a prendere palette e secchielli. Noto che non sono palette e secchielli comuni, sembra roba da professionisti.
Assieme alla madre, formano una lunga catena umana. Il padre raccoglie la sabbia, la mette nei secchielli. La madre trasporta i secchielli verso l’istmo. Laggiù, a quindici metri dalla costa, le figlie ci danno dentro con le palette.
Dopo circa mezz’ora di lavorio intenso, comincia già a profilarsi il capolavoro. Il loro castello panoramico è bellissimo, imponente e maestoso allo stesso tempo: sublime.
È evidente che hanno deciso scientemente di surclassarci.
Di tanto in tanto, il padre si volta nella nostra direzione e sorride compiaciuto.
«Bastardo», mormoro, livido di rabbia.
«Cosa dici, papà?»
«Niente, Nicolò, continuiamo costruire il nostro castello».
«Sta venendo bene, vero?»
«Stupendo».
Piano dopo piano, mi accorgo che il loro castello non è soltanto panoramico – in fondo è facile fare un castello panoramico – è anche (e soprattutto) pieno di trovate architettoniche che non si possono definire altrimenti che geniali. Tunnel, contrafforti, archi, cripte sotterranee, balconi.
Quell’uomo è una sorta di Bernini dei castelli di sabbia, il suo castello presto diventerà patrimonio Unesco dell’umanità, e ha deciso di annientarmi.
«Sta qua, Nicolò devo fare una cosa».
Mi alzo in piedi, giungo le mani dietro la schiena, inizio a guardare e contare.
Parto da 30, risalendo la china, fino ad arrivare a 1.
Arrivato a 5, la madre smette di fare la spola tra la riva e il castello, va a prendere il cellulare, urlando: «Selfie di famiglia!».
La spiaggia si volta tutta quanta nella loro direzione.
Era quello che aspettavo.
«Nicolò»
«Sì, papà?»
«Vai a prendere il cellulare della mamma, facciamo anche noi un selfie».
Stringo gli occhi fino a farli diventare fessure, concentro tutte le mie energie su un’unica parola: «Auguri».
Non accade nulla, ma l’aria ha un fremito. È un piccolo refolo, appena percettibile. Eppure lo sento. «Bene», mormoro, «Non ho perso il mio tocco».
La madre nel frattempo ha raggiunto gli altri col suo smartphone.
Allargo le gambe, stringo le chiappe e, aggiungo: «Vivissimi».
«Auguri vivissimi».
L’aria ha un altro fremito.
Stavolta però sento anche un urlo: «Nuvola, no!». Proviene da qualche parte alle mie spalle. Non mi volto neanche. Mi limito a pensare: «Che castello stupendo».
Nuvola è un molosso pachidermico. Si getta in acqua e si scaglia contro la famiglia in posa, mosso da una forza irresistibile: me.
Stringo ancora di più le palpebre: «No, non il castello. Non ora».
Nuvola sfiora il castello senza abbatterlo.
Le nocche dei miei pugni diventano pallide: «Lui. Deve essere lui».
Per evitare la carica di Nuvola, il padre scarta di lato, inciampa sulla figlia minore, cade rovinosamente contro il suo castello. Centodieci chili di muscoli e ossa, le osservo compiaciuto crollare in rallenti, spazzando via ogni cosa.
Quando anche l’ultima torretta è crollata, il tempo torna a scorrere a velocità normale.
Riallargo lo sguardo. Riporto le mani nella loro posizione naturale. Rilasso le spalle. Il mondo finalmente si è riallineato, è tornato a essere un posto tutto sommato abitabile.
Qualcuno in spiaggia applaude.
Prendo il cellulare che Nicolò mi sta porgendo, mi metto in ginocchio, abbraccio Nicolò, dò le spalle alla famiglia felice, scatto.
Presto, a quel primo timido applauso si aggiungono anche altre mani.
Il padre mi guarda stupefatto. Non lo degno nemmeno di un sorriso.
Controllo piuttosto che la foto sia venuta bene.
È, senza dubbio, il selfie migliore della mia vita.

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